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L’Italia trasformata in un grande parco giochi del cibo: la critica del New York Times

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Anelli di Zucchine

Le vie del centro storico di Palermo profumano di arancine fritte, cannoli e Aperol Spritz. Su via Maqueda trentuno ristoranti affollano una sola strada, offrendo ai turisti di ogni provenienza un tripudio di piatti e colori. Ma per il sindaco Roberto Lagalla questa abbondanza è diventata eccesso, tanto da imporre uno stop all’apertura di nuovi locali nella zona. Il primo cittadino palermitano non ha dubbi: troppo zucchero rovina il caffè, e il cuore storico di Palermo non deve trasformarsi in un villaggio del cibo.

La critica arriva direttamente dalle pagine del New York Times, dove le giornaliste Emma Bubola e Motoko Rich hanno dedicato un ampio reportage al fenomeno della cosiddetta foodification, termine coniato nel 2010 dal Brooklyn Paper per descrivere una nuova forma di gentrificazione che sta ridisegnando i centri urbani italiani. Non si tratta più di arte o cultura, ma della presenza massiccia di locali che sostituiscono i negozi tradizionali, modificando profondamente il tessuto sociale ed economico di interi quartieri.

Palermo non è un caso isolato. Da Bologna a Firenze, da Roma a Torino, molti centri storici italiani stanno diventando enormi ristoranti a cielo aperto, dove la carbonara viene servita in padelle da selfie e le sfogline lavorano dietro vetrine scenografiche, in quella che il quotidiano newyorkese definisce senza mezzi termini una sorta di zoo delle nonne italiane. Gli amministratori temono che il turismo gastronomico, da sempre motivo di orgoglio nazionale, stia oggi minacciando la stessa autenticità italiana. A Firenze, le nuove aperture di ristoranti sono state vietate in oltre quaranta strade del centro, con una delibera che ha esteso le tutele anche fuori dall’area UNESCO, impedendo persino il trasferimento di licenze da altre zone della città.

Negli ultimi quindici anni i centri urbani si sono sempre più svuotati dei loro abitanti. Roma ha perso oltre un quarto dei suoi residenti nel centro storico, con un calo del trentotto per cento nel primo municipio nell’ultimo decennio, mentre i centri di Venezia e Firenze si sono spopolati ancora più rapidamente. Venezia, che nel millenovecentocinquantuno contava centosettantaquattromila abitanti nel centro storico, oggi ne conta poco più di cinquantamila, con una perdita di circa il settanta per cento della popolazione. In compenso, il turismo – che secondo i dati ENIT raggiungerà nel duemilaventicinque duecentotrentasette virgola quattro miliardi di euro di valore aggiunto al PIL – è esploso, trainato da un boom del turismo enogastronomico che, secondo il Rapporto sul Turismo Enogastronomico Italiano, ha visto crescere del centosettantasei per cento i soggiorni con motivazione primaria legata al cibo e al vino.

Palermo incarna bene questa metamorfosi. Dopo il riconoscimento UNESCO del duemilaquindici dell’itinerario arabo-normanno, i visitatori sono aumentati del cinquanta per cento e il numero dei ristoranti del centro è raddoppiato. Bancarelle di frutta e pesce hanno lasciato spazio a locali che vendono limoncello, tiramisù e pasta on a stick. È come se fossero arrivati consumatori ciechi e con lo stomaco di ferro, ha commentato al New York Times Maurizio Carta, assessore alla Rigenerazione Urbana e responsabile della pianificazione urbana del Comune di Palermo. Per molti cittadini, la città rischia di diventare un parco divertimenti gastronomico.

Via Maqueda non è più una città, ma un luna park, ha dichiarato al quotidiano la residente Karen Basile, assistente sociale palermitana, che paragona la vivacità dei locali agli ultimi giorni di Pompei. Un’affermazione forte, che testimonia il disagio di chi vive quotidianamente la trasformazione del proprio quartiere, mentre la Sicilia continua a soffrire disoccupazione e fuga di giovani verso altre regioni o all’estero.

La premier Giorgia Meloni ha definito il turismo come un motore straordinario di ricchezza e benessere. Nel caso di Palermo è innegabile che i fondi per il turismo abbiano permesso di riqualificare quartieri un tempo segnati dalle bombe della Seconda guerra mondiale e dalla violenza mafiosa. Ma la foodification sta cominciando a presentare il suo conto: affitti in crescita, perdita di botteghe storiche, omologazione dei sapori. Persino un fruttivendolo del mercato del Capo, uno dei mercati storici più iconici della città, ha ammesso di guadagnare a fatica cento euro al giorno, schiacciato dalla concorrenza dei locali turistici che hanno invaso le zone circostanti.

Le autorità locali stanno cercando di virare su un turismo più equilibrato. A Palermo la giunta comunale ha approvato nell’aprile del duemilaventicinque una delibera che blocca per diciotto mesi le nuove aperture di attività legate alla somministrazione di cibo e bevande nell’area dei quattro mandamenti, ad eccezione di via Roma e della parte alta di via Maqueda. Il provvedimento, ispirato alla legge Franceschini, mira a tutelare aree di particolare valore storico e architettonico, prendendo spunto da città come Roma e Firenze dove misure simili sono già state adottate. Vogliamo contrastare l’omologazione commerciale e proteggere il tessuto urbano, ha dichiarato Giuliano Forzinetti, assessore alle Attività produttive del Comune di Palermo.

Anche Bologna ha avviato progetti per un modello di rigenerazione urbana più sostenibile. Nel giugno del duemilaventicinque è stata firmata la convenzione per il progetto Cesarine nel centro storico di Bologna, che prevede l’apertura di sette home restaurant gestiti da ambasciatori della cucina bolognese all’interno delle proprie abitazioni, in alcuni dei luoghi più iconici del centro storico. L’iniziativa punta a rafforzare il legame tra tradizione e innovazione, stimolando l’economia di prossimità e promuovendo un turismo esperienziale e responsabile, in contrapposizione alla proliferazione indiscriminata di ristoranti fotocopia.

La questione non riguarda solo l’overtourism, ma la qualità stessa dell’offerta. Oscar Farinetti, fondatore di Eataly, durante la Giornata della Ristorazione duemilaventicinque organizzata da Fipe-Confcommercio a Roma, ha lanciato un messaggio forte e chiaro: nei posti più belli d’Italia vediamo ristoranti turistici terribili. Il problema non è solo di qualità, ma di identità. Secondo Farinetti, il vero Made in Italy si sta perdendo tra pizze surgelate, menù fotocopia e finti piatti tradizionali. Il rischio è che la rete delle osterie scompaia completamente, con le famiglie che non riescono più a sostenere i costi e i figli dei fondatori che non proseguono il mestiere.

Maurizio Carta ha affermato che l’obiettivo delle amministrazioni locali è evitare che ogni via diventi un monocromo di spritz, ricordando che il celebre cocktail non è nemmeno nato in Sicilia, ma nel Nord Italia. Una considerazione che sottolinea l’assurdità di una situazione in cui l’identità gastronomica locale viene sostituita da prodotti standardizzati e destagionalizzati, pensati esclusivamente per soddisfare le aspettative stereotipate dei turisti stranieri.

Paradossalmente, mentre le città italiane lottano contro la trasformazione dei centri storici in parchi tematici del cibo, il governo italiano ha candidato la cucina italiana a patrimonio immateriale dell’UNESCO. La decisione finale è attesa per dicembre duemilaventicinque a Nuova Delhi, dopo una valutazione preliminare prevista per novembre. Il dossier, curato dal professor Pier Luigi Petrillo dell’UnitelmaSapienza, non riguarda un singolo piatto ma l’intero modello culturale della cucina italiana: un insieme di pratiche, rituali e conoscenze che si tramandano di generazione in generazione. Dai pranzi domenicali in famiglia ai mercati rionali pieni di stagionalità, fino al ruolo del cibo come collante sociale.

Il fenomeno della foodification solleva interrogativi profondi sul futuro delle città italiane. Se da un lato il turismo enogastronomico rappresenta un’importante risorsa economica, dall’altro rischia di svuotare i centri storici della loro anima, trasformandoli in scenografie per stranieri affamati di cliché. La sfida per le amministrazioni locali è trovare un equilibrio tra sviluppo economico e salvaguardia del patrimonio culturale, tra accoglienza turistica e tutela della residenzialità, tra valorizzazione delle tradizioni gastronomiche e prevenzione della loro mercificazione. Come ha detto Roberto Lagalla, bisogna garantire un equilibrio tra sviluppo economico e salvaguardia del patrimonio culturale, migliorando la qualità della vita per chi abita e visita il centro storico. Una sfida complessa, che richiede coraggio politico e una visione di lungo termine, ma necessaria per evitare che le città italiane diventino musei viventi abitati solo da turisti e camerieri.