
La tradizionale ricetta delle chiacchiere di Carnevale si è trasformata in un caso mediatico dopo la decisione di Iginio Massari di commercializzarle a 100 euro al chilo, con un aumento del 25% rispetto al 2024. Questo prezzo, otto volte superiore alla media delle pasticcerie milanesi e quindici volte quello dei supermercati, ha scatenato un acceso dibattito sul valore percepito degli alimenti nel mercato del lusso.
Guido Mori, chef e opinionista gastronomico, ha definito l’aumento «una manovra di marketing» legata al brand piuttosto che ai costi di produzione. Le critiche si concentrano sulla presunta «fiacchezza» della pasticceria del maestro bresciano, descritta come basata su «tecniche antiquate» e caratterizzata da «dolcezza eccessiva senza elementi distintivi». A sostegno di questa tesi, Mori cita l’esperienza con un babà di Massari «insignificante nella memoria organolettica».
Il paradosso economico emerge dal confronto con i costi reali: secondo gli esperti, un chilo di chiacchiere artigianali dovrebbe oscillare tra i 60-75 euro, mentre quelle semi-industrializzate come quelle di Massari avrebbero un costo di produzione compreso tra 42 e 60 euro. Valerio Visintin, critico del Corriere della Sera, pur riconoscendo la qualità del prodotto, sottolinea come «a Milano esistano alternative qualitative equivalenti a metà prezzo».
La controversia svela un fenomeno più ampio: la trasformazione del cibo in status symbol. Mori paragona esplicitamente le chiacchiere a «cinture di Gucci», evidenziando come la griffe prevalga sul valore intrinseco. Questo approccio commerciale, secondo gli analisti, altera la percezione dei consumatori e rischia di snaturare la funzione primaria dell’alimentazione. Nonostante le critiche, il successo commerciale sembra dare ragione a Massari: le file davanti alle sue pasticcerie dimostrano come il valore simbolico del marchio possa generare domanda indipendentemente dal prezzo.